Dal 14 al 28 Marzo 2010 al Foyer del Teatro Comunale Francesco Cilea
Di Minniti non si può certo dire che porti all’esasperazione gli schemi di moda. Egli, semmai, scivola verso il suo racconto, verso la sua astrazione che non è limitata ai contenuti letterari.
La sua pennellata va oltre, oltre il progetto e l’immaginazione perché va a richiamare testimonianze, presenze, in una sottile e magica espressione poetica. Coerenza, sopra tutto interiore per Tommaso Minniti che parte da un’architettura dello spirito svincolata da una qualsivoglia contingenza. Ecco perché egli è virtualmente libero. Libero per il suo mondo ideale, per i suoi personaggi senza volto, legati ad una analisi suggestiva.
Certo: si scopre l’equilibrio fra la tecnica e il pensiero, tra la forma e il contenuto essenziale, incanti di un’anima che comunica sensazioni.
A dire che in Minniti si coglie, in ogni suo dipinto, la sincerità e la chiarezza perché nell’artista la franchezza, a mio avviso, rimane di natura psicologica anche quando finisce per toccare la tecnica. Per forza. Le figure femminili, per esempio, raccontano di sofferenze istintive, lontane e talvolta persino drammi dominati dall’eccessiva segregazione di pensiero che egli riesce a trasmettere nella sua forma pittorica avanzata.
In tutta l’opera di Minniti c’è il dramma. Il dramma che devi andare però a leggere tra le pieghe del suo pennello che scorre sulla tela, dentro quei colori accesi di mille cose viste nella vita, ma che di là da tutto, fa parte di una esistenza d’artista ricca di assoluto rigore. Perché raccontare l’intimo? Perché rivisitare archetipi nascosti fra velature temporali e moti di coscienza? No. Minniti con ragione non è questo.
La sua forza, il suo bagaglio è di fresca immediatezza. Offre, nelle sue tele, motivi di ripensamenti, di certezze conquistabili, frutto, non c’è dubbio, di un’acuta sensibilità unita ad un’intelligenza speculativa. Insomma, Minniti propone. Apre la finestra ad un cielo illuminato. E allora la figurazione?
Ecco il punto. Se la sua pittura racchiude tali elementi sensori e seppure di lettura dualistica come abbiamo visto, non c’è dubbio che la luce sia il colore della tavolozza. Luce uguale colore. Luce come spazio profondo, come ritmo costante. I suoi nudi, esemplificando, hanno un corredo di luce-colore ineguagliabile, identificabile quale punto di ricerca comunque in divenire. E le sue macchie non sono macchie perché, pur nella forza della pennellata che si stempera da capo a fondo nel quadro, Minniti traduce quella malinconia che ha dentro, che nasconde, ma che non può nella liberazione è pittura, giocare a far finta.
Da qui il grande amore per la sua arte che è la sua stessa origine di vita.
Per concludere si può dire che proprio attraverso quella tavolozza compagna di vita egli tragga una vibrazione colorata innegabilmente dinamica. Una sintesi visiva che determina una giusta immedesimazione con il suo mondo, con il suo segno, con le sue radici, una somma spontanea di potenzialità di certa levatura. Non fa cerebralismo perché le sue risorse sono naturali, l’ispirazione vera, profonda e persuasiva. Si può allora indicare Tommaso Minniti un artista-pittore che ricerca l’armonia e l’emozione rifacendosi alla lezione dell’esistenza con uno slancio e una volontà squisitamente giovanile.